Firma Juve, l'«italian job» di Ranieri
Claudio Ranieri ha iniziato la carriera nel 1986
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Agli inglesi: "Nel mio Paese ci sono questioni importanti". Imminente l'incontro con Blanc, forse questa sera
GABRIELE MARCOTTI
Ventisette mesi fa, dopo la fine della seconda avventura alla guida del Valencia, c'era chi sosteneva che Claudio Ranieri avesse ormai chiuso con il grande calcio. Finito male alMestalla (dove pure aveva investito cifre importanti per assicurarsi i vari Corradi, Di Vaio e Fiore), ritenuto inadatto dal Chelsea dopo il primo anno dell'era miliardaria di Ibramovich, forse pochi avrebbero scommesso su di lui. Ma Ranieri a certe cose ci era abituato. Del resto si tratta di un allenatore che, dopo un'onesta ma poco spettacolare carriera da giocatore (un centinaio le presenze in Serie A tra Catania e Catanzaro), si è rimboccato le maniche ed è partito dalla gavetta dell'interregionale con il Vigor Lamezia. Trentacinque anni da compiere ma la convinzione che, per diventare allenatori, bisogna iniziare dal primo gradino. Forse è quello stesso spirito da gavetta, di uno che si è formato senza raccomandazioni e santi in paradiso, che lo ha spinto ad accettare il Parma e l'impresa apparentemente impossibile di tenere in Serie A i biancoscudati. E adesso, a obiettivo pienamente centrato, tornano a bussare le grandi. Su tutte la Juventus, ma vi è anche il Manchester City dell'exprimo ministro tailandese, il miliardario Thaksin Shinawatra. Noto come il Berlusconi di Bangkok (per gli interessi nel campo delle comunicazioni nonché per le vicende giudiziarie), Shinawatra ha messo sul piatto circa 300 milioni di euro, metà per l'acquisto del City (manca l'avvallo delle autorità britanniche, il nullaosta dovrebbe arrivare nei prossimi giorni), e metà per una faraonica campagna acquisti, che verrebbe gestita direttamente da Ranieri.
Due ipotesi allettanti quindi anche se, di nero su bianco, al momento, non c'è nulla. Nulla, salvo la conferma che Ranieri è stimato sia a Torino che a Manchester (per non parlare di Bangkok). «Tutto questo fa piacere, così come mi piacerebbe tornare in Inghilterra un giorno - ha dichiarato alle telecamere dell'emittente britannica Sky Sports - Ma vi sono questioni importanti anche in Italia.
E al momento non c'è nulla di concreto». Parole «da Ranieri». Di uno che è sempre stato misurato nei termini e attento al linguaggio, almeno in pubblico. Tutto l'opposto di colui che lo ha sostituito sulla panchina del Chelsea, José Mourinho. E forse proprio l'ultimo anno a Stamford Bridge è servito a solidificare la sua reputazione agli occhi della critica inglese. Già l'anno prima aveva compiuto un mezzo miracolo, spingendo un Chelsea sull'orlo della bancarotta fino in Champions League (una qualificazione senza la quale Abramovich non avrebbe mai comprato il club). Ma nel 2003-04, al primo (e ultimo per lui) anno con a disposizione i miliardi russi, Ranieri ha saputo costruire un autentico squadrone, capace di finire secondo in campionato dietro all'imbattuto Arsenal e, al tempo stesso, di raggiunge la semifinale di Champions League contro il Monaco di (guarda caso) Deschamps. Tutto ciò senza una pedina fondamentale come Veron (prelevato a peso d'oro, ma tartassato dagli infortuni che lo limitarono ad appena cinque presenze) e con la consapevolezza di non avere alle spalle la fiducia del club e in particolare dell'amministratore delegato Peter Kenyon. Nella sua autobiografia, lo stesso Ranieri spiega come l'aver visto Kenyon in compagnia di Mourinho (che allora allenava il Porto) alla vigilia della semifinale con il Monaco lo abbia portato a commettere l'errore più grosso della sua carriera. AMonaco, con le squadre sull'1 a 1, i monegaschi in dieci a mezz'ora dalla fine e il Chelsea saldamente al comando, decise di togliere un difensore e inserire la terza punta per chiudere il confronto subito.
Decisione rischiosa, avventata, totalmente atipica per un allenatore come lui. E una scelta pagata cara. Il Monaco vinse per 3 a 1 ed eliminò virtualmente i Blues. Un errore che, forse, gli costò la panchina, perché se avesse vinto la Champions League, difficilmente Kenyon avrebbe avuto il coraggio di cacciarlo. Soprattutto dal momento che con i tifosi ha sempre avuto un ottimo rapporto (commovente l'addio a Stamford Bridge) con i giocatori schierati in una guardia d'onore e il pubblico a scandire il suo nome. Dove Ranieri ha seminato, altri hanno spesso raccolto. A Valencia acquistò Canizares e Claudio Lopez, lanciando in prima squadra i vari Angulo, Farinos e Mendieta, gente che avrebbe poi raggiunto due finali di Champions con Hector Cuper. E, anche se sono passati tre anni, c'è tanto Ranieri nel Chelsea di Mourinho. Lampard, Joe Cole, Makelele, Robben, Cech. Tutta gente scelta da Ranieri (anche se gli ultimi due sono arrivati dopo il suo addio). Senza contare capitan Terry il quale, il giorno dell'addio, regalò a Ranieri la sua prima maglia con la nazionale inglese: «Questa è tutto merito tuo». Anche per questo la tentazione- Juve è fortissima. La lunghissima gavetta (dieci panchine) ha portato anche successi sul campo (una Coppa di Spagna, una Supercoppa Europea, una Coppa Italia e tre promozioni) ma forse per lui è arrivato il momento di tornare nel grande calcio del suo Paese, alla guida di una nobile in cerca di riscatto. Tra questa sera e domani l’incontro decisivo con Jean-Claude Blanc, l’amministratore delegato della Juventus che ha avuto mandato di chiudere la trattativa con l’allenatore italiano più “english”.